Spazi separati: l’importanza del sostegno alla genitorialità nelle terapie con gli adolescenti

Scrivevo nel mio precedente articolo che: “Il problema è quando pensiamo che il punto siano solo i figli”.
Come clinici, quando lavoriamo con l’età evolutiva, non possiamo illuderci di poter fare questo lavoro in solitaria. Quando un ragazzo (spinto o meno dai genitori) chiede un aiuto psicologico, è fondamentale lavorare in tandem. A volte, infatti, i figli si fanno portavoce di difficoltà e fatiche che hanno a che fare con l’ambiente che li circonda. E si possono sentire soli, in queste difficoltà; un po’ come si sente solo il genitore di fronte a una porta sbattuta o un “NO” secco come risposta alla domanda “Come stai? Tutto bene?”.

  1. Perché non parlano con mamma e papà.

Non siamo qui a dirci “bravo genitore” o “cattivo genitore”. Un genitore è un genitore e basta, con i suoi limiti, le sue responsabilità, e i suoi punti di forza. Ma, soprattutto in adolescenza, è normale che non divenga sempre (o improvvisamente non sia più) il massimo confidente del proprio figlio. Non spaventiamoci. Se i ragazzi hanno una difficoltà e vengono a chiedere un aiuto esterno, è perché è fondamentale che ci sia uno spazio, per loro,  dove poter mettere i pensieri. Uno spazio che sia privato e percepito come proprio, un po’ come la camera.
Il discorso è che, pensare che facciano loro “tutto” il lavoro, è un punto di vista parziale. Perché, spesso, gli esiti migliori si hanno quando tutti, con motivazioni, fatiche e tempistiche differenti, si mettono in gioco. Per questo il sostegno alla genitorialità è fondamentale. Perché il rischio, altrimenti, è quello di lavorare a metà. O di fare come Penelope che di giorno tesse la tela, e di notte la disfa. Solo che, questo astuto stratagemma, diventa rischioso quando parliamo di sofferenza. Il genitore può sentirsi escluso, e quindi non comprendere, cosa accade durante un percorso terapeutico e il rischio è quello che faccia ancor più fatica a leggere i comportamenti del proprio figlio; oppure può avere delle aspettative proprio su quel percorso, desiderare risultati tempestivi ed illuminanti, e rimanere spaventato, deluso, o arrabbiato se arrivano di contro richieste diverse da parte del ragazzo. E possono, quindi, innescarsi dinamiche (ovviamente non consapevoli) per cui l’uno rema contro l’altro. E siamo punto e a capo. 
Proprio per l’attenzione alla “privacy” di cui accennavamo prima, il clinico che prende in carico l’adolescente non può essere lo stesso che prende in carico i genitori. Quindi, i clinici sono due: uno lavora con il figlio; l’altro con i genitori. Attenzione, questo non significa che lo psicologo “del ragazzo” sparisce dai radar, diviene irrintracciabile o non comunica più con il genitore. No, significa che, però, i lavori devono essere ben separati proprio per mantenere un certo grado di riservatezza, e garantire che entrambe le parti possano sentirsi maggiormente libere di esprimersi, evitando scomodi fraintendimenti. L’adolescente sapendo, infatti, che mamma e papà vedono, mettiamo una volta al mese, “la sua” Dottoressa, potrebbe innescare spiacevoli non detti. Potrebbe essere difficile, per un ragazzo, aprirsi, affrontare alcune tematiche. Sarebbe come dirgli di stare sempre e solo con la porta aperta in camera. La porta è un confine, e anche lo spazio della terapia lo è.

  1. Obiettivi di lavoro: aiutarci ad aiutarli.

Un piccolo inciso o, come direbbero i ragazzi, “Allarme spolier”: Non ci sono strategie preconfezionate. Qual è, quindi, il senso del lavoro con i genitori?
– Cercare di capire insieme che cosa succede nella relazione con il proprio figlio. Attenzione! Non che cosa succede esattamente nelle sedute del figlio. Non è il “telefono senza fili”, bensì un lavoro di rete. Per far questo i clinici sono in contatto tra loro, ma ognuno prosegue nella sua strada, anche se la meta è la stessa. Si percorrono solo due sentieri diversi. In buona sostanza, il lavoro con i genitori si centra su come loro si sentono e si comportano quando accadono determinate situazioni o emergono criticità;
– Dare un significato alle preoccupazioni. Insieme si cerca di capire, per i genitori, che cosa è difficile da sostenere e da affrontare, che cosa fa paura? Dare un senso ed nome a quello che accade poiché, molte volte, la vera difficoltà è essere immersi nelle situazioni, senza avere il tempo ed il modo di guardarle “a freddo”,
– Avere uno sguardo esterno. Lo psicologo non è li in quanto giudice per sentenziare l’operato della famiglia; bensì cerca di cogliere, insieme ai genitori, che cosa sta accadendo e quali sono (a questo punto possiamo dirlo) le strategie migliori che si possono adottare insieme. Ci si aiuta e ci si confronta, con il fine di mettere insieme i pezzi mancanti.
– Aiutare in modo indiretto il proprio figlio. Accade, talvolta, in casi specifici (pensiamo all’isolamento sociale) che l’adolescente in difficoltà non voglia aver momentaneamente accesso alla terapia. In questi specifici casi, si parte proprio dai genitori e dalla loro richiesta di aiuto.

  1. Una precisazione finale

Differenziamo il sostegno alla genitorialità da:
– La terapia familiare: dove tutti i soggetti sono coinvolti contemporaneamente, nella stessa seduta, e dove le tematiche si affrontano nello stesso luogo e con lo stesso terapeuta;
– La terapia di coppia: dove il focus non è sulla genitorialità (o lo è ma in modo indiretto), bensì sulle dinamiche relative ai due partner.

 

 

 

A cura di:

Beatrice Ventura

Psicologa – Criminologa – Specializzanda Scuola di Psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico per l’individuo ed i gruppi
  • Colloqui individuali con bambini, adolescenti e adulti
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