“Mamma, papà… lasciatemi crescere!”

Dilaga l’atteggiamento iperprotettivo nei confronti dei propri figli. Un modo eccessivo di tutelarli, sostituendosi a loro in prove di vita che, per crescere, essi dovrebbero invece affrontare sempre in prima persona. Negli ultimi decenni, con l’incremento del benessere sociale, abbiamo assistito ad una evoluzione della famiglia, nella quale sono avvenute varie trasformazioni, non ultime quelle in relazione al mondo esterno.
La famiglia ha evoluto la sua dinamica sempre più verso una tipologia di relazione iperprotettiva da parte dei genitori nei confronti dei figli: questi ultimi sono costantemente facilitati e supportati nell’affrontare qualunque difficoltà. Questo agire iper responsabile delle madri e dei padri è certamente benevolo perché basato sull’intento di dover limitare il più possibile sofferenze e malessere ai propri figli, ma, come spesso accade, all’eccesso, anche aiutare danneggia, invece di facilitare la crescita dei giovani.
Proteggerli troppo, impedisce loro di sperimentare, di mettersi alla prova nell’affrontare disagi e ostacoli della vita, di sviluppare le proprie risorse e capacità personali, prerogative fondamentali per lo sviluppo dell’autostima e resilienza personale. Questi ultimi aspetti sono utili per lo sviluppo di una personalità sana, equilibrata e capace di gestire la relazione con sé e con gli altri.
Il modello familiare iperprotettivo, quando viene ripetuto, rende impossibile ai figli la costruzione del senso di autoefficacia, relativo al concetto di essere capace: questo aspetto può strutturarsi stabilmente solo attraverso concrete esperienze di successo nel fronteggiare, superare i problemi e gli intoppi che la vita propone. Spianando la strada al figlio con l’intento di limitarne disagi e frustrazioni, finiscono per realizzare il contrario, poiché il figlio crescerà insicuro, con una scarsa oppure un’ eccessiva fiducia nelle proprie capacità, condizioni che aumentano il rischio di fallimento di fronte ai primi problemi che il figlio dovrà affrontare da solo. Se quello che subirà saranno sofferte sconfitte o sonore batoste, si ritroverà ulteriormente minata una personalità già fragile.
Tutto ciò non sta a significare che i figli vanno lasciati a se stessi, ma che che la cosa migliore è dare loro aiuto solo quando è strettamente necessario o quando viene direttamente richiesto, senza mai sostituirsi al loro nel fare ciò che non sono in grado di fare. In questa maniera si favorisce il diretto interagire del figlio con le difficoltà che si troverà ad affrontare. Per esempio, se il ragazzo non riesce nei compiti scolastici, invece di fornire risposte, bisogna fare in modo che arrivi a farcela da solo: non svolgere i compiti insieme a lui, ma rivederli dopo che li ha eseguiti da solo, per correggere gli eventuali errori e farglieli comprendere.
Un altro esempio è quando un bambino ha paura di qualcosa: bisogna aiutarlo a fronteggiare il senso di timore senza offrirgli una protezione diretta, ma facendogli sperimentare che la paura guardata in faccia può trasformarsi in coraggio, accompagnandolo con la voce durante il suo esporsi a ciò che lo spaventa, senza però intervenire al suo posto, cosicché l’eventuale successo sia una sua conquista.
L’amore genitoriale è prima di tutto dare ai figli la possibilità di esprimersi al meglio e di costruire la proprio identità e indipendenza personali.

 

A cura di:

Chiara De Battisti
Psicologa
Specializzanda in Psicoterapia Sistemico-relazionale (Centro Padovano di Terapia della Famiglia)

chiara.debattisti@ordinepsicologiveneto.it

 

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