Storie di vite accolte – Il peso del caregiving

“Un Respiro Nuovo”. La storia di Laura*

Mi chiamo Laura e ormai, più che figlia o sorella, sono una “caregiver”. È difficile descrivere cosa significhi essere la persona che si prende cura di qualcun altro, soprattutto quando quel qualcuno è una madre che non riconosce più il proprio volto allo specchio e nemmeno quello di sua figlia. La fatica, la solitudine, il senso di inadeguatezza ti consumano, ma non è mai semplice dirlo a voce alta. Non è che non ci siano momenti di gioia, ma ogni passo avanti è preceduto da una sensazione di stanchezza che ti spinge a chiederti: “Posso continuare così?”

Mia madre è sempre stata una persona forte, una di quelle donne che non si ferma mai, che sa prendere le redini della propria vita. Però da quando è arrivata la malattia, il cambiamento è stato silenzioso, insidioso, e adesso la vedo fare cose che non avrei mai immaginato. Prima erano piccole dimenticanze, nomi sbagliati, domande ripetute. Poi è arrivato il punto in cui le ho visto perdere la capacità di riconoscere chi fosse, di ricordare il suo passato, di camminare senza aiuto. Ogni giorno, il suo mondo si restringe sempre di più, e con esso, il mio.

Le prime volte che mi ha guardato e non mi ha riconosciuta, ho pensato di non farcela. Non ho pianto subito, ma mi sono sentita svuotata, come se qualcosa di essenziale si fosse spezzato tra noi. Non era solo il dolore di vederla soffrire, ma quello di non essere più per lei quella che ero. Non mi vedeva più come la figlia che ha cresciuto, ma come una presenza estranea, un fantasma che la accompagnava nel suo smarrimento.

All’inizio, cercavo di fare tutto da sola. Dovevo esserci, sempre. Non potevo chiedere aiuto. Ma, più andavo avanti, più mi rendevo conto che la mia salute mentale e fisica stavano cedendo sotto il peso della responsabilità. Non potevo più dormire, non riuscivo più a concentrarmi, ogni cosa che facevo sembrava pesare il doppio. E più mi perdevo nella cura di lei, più mi dimenticavo di me stessa.

Un giorno, dopo l’ennesima notte insonne, ho deciso che dovevo trovare una via d’uscita, un modo per respirare. Ho parlato con mio marito, il quale, vedendomi sempre più stanca e distante, finalmente mi ha chiesto: “Che cosa possiamo fare per te?”. Ed è stato in quel momento che ho realizzato quanto avessi bisogno di aiuto, ma anche quanto fosse difficile per me chiedere. Non volevo sembrare debole, non volevo che lui pensasse che non ce la facevo. Ma la verità era che, da sola, non ce la facevo più.

Abbiamo deciso di cercare un supporto esterno. Ho preso contatti con un’agenzia di assistenza domiciliare. Una persona sarebbe venuta a casa, ogni giorno per alcune ore, per aiutarmi con le attività quotidiane di mia madre: darle da mangiare, aiutarla a fare il bagno, sistemare la casa. La prima volta che questa persona è arrivata, mi sono sentita una fallita. Non dovevo essere io ad occuparmi di tutto? Però, con il passare dei giorni, ho capito quanto fosse fondamentale quel piccolo aiuto. Non significava abbandonare mia madre, ma semplicemente concedermi il tempo di ricaricare le forze per poter continuare ad aiutarla. Ho potuto dormire qualche ora in più, ho potuto leggere un libro senza pensare a cosa sarebbe successo dopo, ho potuto fare una passeggiata da sola.

In parallelo, ho cercato supporto psicologico. Mi sentivo persa, incapace di gestire l’emotività che la situazione stava suscitando in me. La terapeuta mi ha fatto capire che non ero sola, che non c’era nulla di sbagliato nel chiedere aiuto, che dovevo imparare a riconoscere i miei limiti. Mi ha insegnato a dare valore anche ai piccoli gesti, a non aspettarmi miracoli ma ad essere gentile con me stessa, a riconoscere che non ero superwoman, ma una donna che aveva il diritto di essere stanca, di sentirsi fragile.

Poi, ho cercato anche il contatto con altri caregivers. Ho scoperto dei gruppi di supporto, sia online che in presenza, dove persone come me si incontrano per condividere le proprie esperienze. Non avevo idea di quanto potesse essere utile parlare con chi viveva la stessa realtà. Ci siamo raccontati le difficoltà quotidiane, le emozioni che non sempre si possono esprimere. Sono emerse tante idee pratiche che non avevo mai preso in considerazione. Per esempio, ho iniziato a usare ausili per la casa che hanno migliorato notevolmente la sicurezza per mia madre: una sedia per la doccia, delle barre nei punti strategici per aiutarla a camminare. Questi piccoli accorgimenti hanno alleggerito il mio carico quotidiano e anche la qualità della vita di mia madre è migliorata.

Ho anche cominciato a pensare di più a me. Ho iniziato a fare delle pause: anche solo dieci minuti per bere un tè caldo, o per fare una telefonata con un’amica. Ho ripreso a fare esercizio fisico, a camminare un po’ ogni giorno. Non è molto, ma quando sei esausta, ogni piccolo passo conta. Ho smesso di sentirmi in colpa per i miei momenti di relax. Ho imparato a vedermi come una persona che ha bisogno di prendersi cura di sé, per poter continuare a dare agli altri.

La comunicazione con mia madre è cambiata. All’inizio, quando non mi riconosceva, mi sentivo inutile. Ora cerco di concentrarmi su ciò che possiamo ancora fare insieme: ascoltiamo musica che le piace, guardiamo foto vecchie, cerchiamo di fare attività che stimolino la sua memoria, anche se a volte non sembra esserci molto da stimolare. Cerco di non forzare la situazione quando lei è stanca o confusa, ma di creare momenti di serenità, in cui possiamo essere insieme senza l’assillo della malattia. La sua memoria è frammentata, ma io so che ci sono ancora connessioni, anche se invisibili.

La strada è ancora lunga e non priva di difficoltà. Mia madre sta peggiorando, e io continuo a cambiare, ad adattarmi, a imparare. Ogni giorno è diverso, ogni giorno è una sfida. Ma, per la prima volta da tanto tempo, sento che non sto camminando sola. Ho trovato delle soluzioni che mi permettono di essere presente per lei, ma anche di non perdermi completamente nel mio ruolo di caregiver. Ho imparato a chiedere aiuto, a mettere dei confini, a riconoscere che sono una persona e non solo una “badante” che si sacrifica.

E, anche se la malattia di mia madre non ha soluzioni facili, ho imparato che posso affrontarla con più forza, con più serenità, con l’aiuto delle persone che mi stanno accanto. Ho trovato il mio respiro. E so che, con pazienza e amore, posso continuare a camminare, per lei e per me.

 

*(nome di fantasia)

A cura di:

Antonella Stella

Psichiatra e psicoterapeuta

Istruttore protocolli mindfulness 

 

 

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